Per “impresa familiare”, disciplinata dall’art. 230 bis del cod. civ., si intende quell’impresa in cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo grado.

L’art. 1 comma 13 della legge 76/2016 (“legge Cirinnà”) ha equiparato l’unito civilmente che partecipa all’impresa familiare al coniuge e, in particolare, allo stesso sono stati riconosciuti:

  • con riferimento ai diritti patrimoniali, il diritto al mantenimento, il diritto di partecipare agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  • con riferimento ai poteri gestori, il diritto di partecipare alle decisioni relative all’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa;.

La legge ha infine riconosciuto all’unito civilmente il diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o trasferimento della stessa.

La posizione del convivente di fatto o more uxorio è stata invece solo parzialmente tutelata dalla legge Cirinnà, che definisce conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, prescindendo dalla circostanza che la coppia sia formata da persone di sesso diverso o dello stesso sesso.

La norma si limita ad attribuire al collaboratore convivente di fatto, che presta stabilmente la propria opera, una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni con gli stessi acquistati oltre agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Tra i diritti riconosciuti non sono ricompresi pertanto né il diritto al mantenimento, né il diritto di partecipare alle scelte dell’impresa, né il diritto di prelazione in caso di trasferimento dell’azienda o divisione ereditaria.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 148 del 25 luglio 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230 bis comma 3 in quanto non prevede, come familiare e collaboratore dell’impresa familiare, anche il convivente di fatto o more uxorio, dichiarando illegittimo, di conseguenza anche l’art. 230 ter sopra indicato, che attribuiva le tutele e i diritti previsti per il coniuge in maniera completa all’unito civilmente e in maniera parziale al convivente more uxorio.

La Consulta, muovendo dal presupposto che nell’attuale quadro normativo e giurisprudenziale, nazionale e comunitario, va sempre più riconosciuta piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto al pari dei componenti della famiglia c.d. tradizionale (fondata sul matrimonio), statuisce che, nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, quali il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione, da tutelare anche nel contesto dell’impresa familiare, non può esistere alcuna differenza fra convivente more uxorio, coniuge e unito civilmente.

Secondo la Corte Costituzionale, pertanto, la prestazione lavorativa del convivente more uxorio nell’impresa familiare dev’essere equiparata a quella del coniuge e dell’unito civilmente, godendo delle stesse tutele e degli stessi diritti, anche al fine di impedire che la stessa possa essere qualificata come prestazione a titolo gratuito non retribuita.