Con la sentenza del 25 gennaio 2016, il Tribunale di Roma ha riconosciuto la possibilità di procedere alla fusione di due o più enti non societari. Agli stessi vengono estese in via analogica le norme del codice civile che regolano il procedimento di fusione societaria. Tali disposizioni non potranno essere applicate indistintamente bensì ove compatibili con il modello organizzativo che caratterizza gli enti associativi. Dovranno quindi tenersi sempre a mente – precisa la Corte – le differenze strutturali e di scopo che contraddistinguono gli enti non profit.
Il caso che ha originato la pronuncia in commento riguarda, nello specifico, la fusione per incorporazione di due enti non profit di utilità sociale, entrambi operanti con funzioni complementari, nel settore della ricerca medica. La validità dell’operazione in parola era stata contestata da uno dei fondatori delle fondazione, il quale aveva rilevato, tra l’altro, gravi vizi del procedimento di fusione delle due fondazioni condotta secondo la disciplina dettata per le società.
La possibilità per due o più enti di natura non commerciale (associazioni, comitati o fondazioni) di unirsi in una le proprie strutture dando vita ad un solo soggetto giuridico (che può essere nuovo ovvero già esistente) è stata in passato fortemente dibattuta. Il procedimento di fusione, infatti, viene espressamente regolato dal legislatore solo per le società. Nulla è invece previsto nello specifico per gli enti associativi. La scarna disciplina degli enti non profit e l’assenza di precise disposizioni in tema di fusione rappresenta un ostacolo operativo che ha in passato fortemente limitato l’esecuzione di tali operazioni.
L’esigenza di accorpamento di enti non profit è andata via via crescendo, a seguito del sorgere spontaneo e del rapido proliferare di organizzazioni non lucrative in settori di vitale interesse sociale (istruzione, arte e cultura, sanità, assistenza sociale, ricerca, ambiente). Proprio alla fusione è infatti riconosciuta, come nel caso in commento, la prerogativa di essere valido strumento per potenziare (e allo stesso tempo ottimizzare) la gestione della vita di enti non profit. Il vantaggio concreto derivante dalla fusione per i soggetti che operano nel terzo settore è indubbio: la creazione di enti di maggiori dimensioni consente la condivisione di mezzi e risorse, favorisce un più rapido reperimento di fondi, una migliore individuazione e selezione di progetti da finanziare, nonché una presenza più massiccia sul territori ed un più efficace coinvolgimento di persone nella vita dell’ente.
In tale contesto si inserisce la pronuncia in commento, che si segnala per un duplice ordine di motivi. In primo luogo, i giudici di merito riconoscono espressamente la possibilità per organizzazioni senza scopo di lucro di accedere, al pari delle società, allo strumento della fusione, rispondendo quindi alle istanze di ottimizzazione anzidette. In secondo luogo, la sentenza ha il pregio di individuare e selezionare quelle “disposizioni introdotte con la riforma del diritto societario in tema di trasformazione omogenea o eterogenea che possono trovare applicazione, nei limiti della compatibilità, anche con riferimento agli enti, previsti nel citato libro primo del codice civile”.
Nel dettaglio, la corte riconosce che il potere di redigere il progetto di fusione cui andrà allegata la relazione sulle ragioni dell’operazione, le eventuali modifiche statutarie, la situazione patrimoniale, ecc. spetta agli organi amministrativi degli enti interessati dalla fusione. Sempre all’organo amministrativo spetterà altresì l’obbligo di procedere al deposito degli atti presso la sede degli enti interessati all’operazione (ex art. 2501 septies c.c.).
Secondo il Tribunale, non risultano, invece, applicabili – neanche in via analogica – le disposizioni dettate in tema di rapporto di cambio. Non vi sarebbero, infatti, quote di partecipazione al capitale sociale la cui proporzionalità deve essere rispettare in relazione all’ente risultante dalla fusione.
Il potere di approvazione del progetto di fusione dovrà essere deve necessariamente essere riconosciuto in capo ai rispettivi organi amministrativi degli enti interessati, posto che, di regola, essi sono prive di un organo assembleare. È infatti incompatibile la struttura delle fondazioni con quanto dispone l’art. 2502 c.c, che demanda alla deliberazione dell’organo assembleare il potere di approvazione della fusione e manifestazione della volontà di procedere alla fusione. La mancanza di tale delibera assembleare comporta la conseguente inapplicabilità, secondo il Tribunale, anche della previsione dell’art. 2502 bis c.c. (in tema di pubblicazione della deliberazione di fusione nel Registro delle Imprese) e dell’art. 2503 c.c. (in tema di opposizione dei creditori).
Resta, invece, applicabile la disposizione di cui all’art. 2504, 1 comma c.c., a mente del quale “La fusione deve risultare da atto pubblico”, il cui contenuto dovrà corrispondere a quello dell’atto di fusione.
Per ciò che attiene alle formalità successive al rogito dell’atto di fusione, il Tribunale di Roma chiarisce che l’approvazione da parte dell’autorità amministrativa della fusione, con connessa iscrizione del suddetto atto nel Registro delle persone giuridiche, non è ostativo all’eventuale impugnazione dell’atto medesimo.